A cura di Vanessa Guazzi
Una terra lontana e misteriosa che, fino ad un passato recente, era sinonimo di lusso, opulenza, sfarzo, mondanità. Questa era la Persia, l’odierno Iran, che nell’immaginario collettivo era sinonimo di ricchezza e di opulenza all’estero, ma anche di dispotismo e assolutismo in patria.
Il suo ricchissimo scià, Mohammad Reza Pahlavi, con i suoi viaggi, le sue feste, le sue amanti, incantava, infatti, tutto l’Occidente, quando in realtà la società persiana si barcamenava tra tirannia e diplomazia, luci ed ombre. Ma ogni grande re che si rispetti necessita la sua regina e, dopo uno sfortunato primo matrimonio con Fawzia d’Egitto, culminato in un divorzio burrascoso, la dinastia reclamava un erede maschio ed una nuova sovrana: fu allora che Soraya comparve sulla scena.
Di soli 19 anni e di una bellezza già imponente, Sorāyā Esfandiyāri Bakhtiyāri (conosciuta più semplicemente solo come Raya o semplicemente “Soraya”) era nata ad Esfahan il 22 giugno 1932, figlia di Khalil Esfandiari Bakhtiyari, un importante membro della tribù dei Bakhtiyari e ambasciatore d’Iran nella Repubblica Federale Tedesca.
La madre, Eva Karl, era invece un’ebrea tedesca di origini russe. Un matrimonio combinato, che soffocò sul nascere le ambizioni di attrice della giovane Soraya, che aveva vissuto a lungo come una donna moderna in Europa, e accettò a malincuore la sua sorte di sposa dinastica, vedendo sfumare il miraggio di Hollywood.
Quello che avrebbe dovuto essere uno dei tanti matrimoni combinati, si rivelò invece un’unione d’amore e quando Soraya si trovò per la prima volta di fronte allo scià trentaduenne, si innamorò all’istante, ricambiata. Il giorno dopo fu annunciato il fidanzamento, le nozze previse per il 12 Febbraio 1951. Tuttavia, l’evento fu carico di oscuri presagi.
Lei era reduce da una febbre tifoidea e, convalescente, svenne tre volte sotto la zavorra dello sfarzosissimo abito confezionato per lei da Christian Dior: un deliro di trine, balze, tulle e seimila diamanti, dal peso di venti chili, che resistette giusto il tempo della cerimonia, quando lo scià incaricò una dama di corte di dare un colpo di forbici allo strascico.
Nozze di fiaba, nozze da Mille e una notte, titolarono i rotocalchi. Tra i molti eccessi, si ricorda la tonnellata e mezzo di fiori, mandati a prendere in Olanda su un aereo speciale, che adornarono la reggia della cerimonia fino a rendere l’aria irrespirabile.
Il matrimonio combinato si rivelò un matrimonio d’amore, i due si amarono appassionatamente anche se, per questioni di etichetta, si davano del lei anche nell’intimità, quando si leggevano poesie: lei gli declamava Verlaine in francese e lui rispondeva con Omar Khayyam.
Nozze combinate, sfociate certamente in una grande passione, ma questo non bastava a rendere lieve la vita di Soraya a palazzo: la lontananza continua del marito e la generale condizione che soffriva, in quanto donna, erano costanti nella sua quotidianità. Vittima di una discriminazione ben lontana dallo stile di vita che aveva vissuto in Europa, Soraya subiva ogni giorno la notevole pressione della famiglia imperiale, ansiosa di veder assicurato un erede al trono.
Nel 1953 la famiglia reale dovette fuggire a Roma durante il governo del primo ministro Mossadeq, ma lei continuò a essere la compagna fedele, l’amante premurosa, la donna consolatrice.
Il primo ministro Mossadeq aveva esautorato lo scià e aveva nazionalizzato il petrolio persiano, togliendone il monopolio alle compagnie inglesi. Ne seguirono disordini, in seguito ad una sollevazione popolare, e il 16 agosto 1953 la coppia era stata costretta alla fuga.
A Roma, dove alloggiavano al quarto piano dell’hotel Excelsior assediati dai fotografi, nel corso di un’intervista lo Scià proclamò di avere due fedi “il Corano e Soraya”.
Rientrarono in Iran il 22 agosto, quando Mossadeq fu arrestato dal generale Zahedi. Il tempo passava, però, e i figli non arrivavano: per Soraya iniziò la peregrinazione tra i luminari mondiali. Anche se la Persia non era il regno incantato delle favole, anche se la vana attesa di un erede stava tramutando quegli anni in un incubo, lei, comunque, amava il suo Scià. Soraya si sottopose a cure lunghe e inconcludenti, mentre annotava sul suo diario: “Lo scià non è mai stato così appassionato e i suoi abbracci più focosi“.
Nel palazzo imperiale di Etchessassi (“trappola per topi“, come lo definì) l’imperatrice riceveva dai sudditi centinaia di talismani per il suo grembo inadempiente: amuleti, miniature con versetti del Corano, flaconi di unguento magico. Tutto inutile.
Secondo quanto detto da Soraya, lei non aveva alcuna imperfezione fisica, semplicemente i figli non arrivavano e consiglieri, parenti e ministri diventavano sempre più impazienti. Per non ripudiarla lo scià tentò due strade. La prima era quella di designare erede al trono il fratello minore, Alì, ma questi morì in un incidente aereo. L’ altra strada era quello che il diritto sciita chiama “sighè“: un matrimonio a tempo con una donna che lo scià avrebbe ripudiato nell’istante stesso in cui lo avesse reso padre di un figlio maschio. Soraya, nata persiana ma cresciuta europea, rifiutò questo compromesso umiliante. Fu lei che prese l’iniziativa e nel febbraio del ’58, a sette anni esatti dalle nozze, tornò in Europa dai genitori, lasciando lo scià libero di prendere la sua decisione.
Il 14 marzo, lui diede al mondo l’annuncio del ripudio: affranto, quasi piangente, la chiamò “sposa adorata” e Soraya tornò libera, anche se con un ricchissimo appannaggio (che avrebbe eventualmente perso se fosse passata a nuove nozze).
Pianse lo scià, pianse l’Iran per la perdita della sua regina. I rotocalchi coniarono per Soraya l’etichetta di “principessa dagli occhi tristi“ che le rimarrà incollata addosso fino alla morte.



Venticinquenne, si stabilì in una villa sull’Appia Antica, e iniziò a trascorrere le estati all’Argentario, non mancare ad una festa, presa in una girandola di amori: il principe Raimondo Orsini, Gunther Sachs, ex di Brigitte Bardot, l’attore Maximilian Schell, il banchiere Antonio Munoz.v Soraya desiderava riprendere la sua carriera da attrice: pensava che in Europa avrebbe avuto ottime occasioni per recitare e dimostrare quanto valeva, cercava riscatto. Nel 1965 arrivò la sua occasione: un film come protagonista, “I tre volti“, accanto ad Alberto Sordi, voluto da Dino De Laurentiis proprio per lanciarla nel mondo dello spettacolo. Era un film “di lusso” a episodi, tutto imperniato su di lei, il cui prologo, firmato da Michelangelo Antonioni, altro non era che la registrazione del primo provino di Soraya davanti alla macchina da presa. Nel primo episodio invece – “Gli amanti celebri“, con la regia di Mauro Bolognini – Soraya (insieme a Richard Harris e Esmeralda Ruspoli) era una signora del ‘jet set’ coinvolta in uno stanco triangolo sentimentale. L’altro episodio – “Latin Lover“, diretto dal compagno della neo-attrice, Franco Indovina – raccontava le patetiche vicende di un gigolò, interpretato da Alberto Sordi.
Fu un fiasco colossale, Soraya non era in grado di recitare, mancando totalmente di espressività: “i tre volti” erano in realtà uno uno solo, imperscrutabile. La pellicola fu solo un monumento alla sua bellezza: fredda e rigida come una statua.
Misteriosamente, tutte le copie stampate del film spariscono in breve dalla circolazione e, secondo Soraya, fu addirittura lo Scià a commissionare il furto, poiché non gradiva che l’ex moglie seguisse la carriera d’attrice. Forse non fu un caso che anche l’altra pellicola da lei girata, “La dea della città“, andò perduta. Tuttavia, quel film disastroso permise a Soraya di aprire una parentesi di vita felice: uno dei tre registi della pellicola, Franco Indovina, divenne infatti un suo grande amore.
Ma il destino non aveva smesso di accanirsi contro Soraya: il suo amore, infatti, era destinato a durare solo qualche anno. Nel ’72, Franco Indovina perse la vita nel disastro aereo di Punta Raisi, e, per la seconda volta, il destino le portò via anche il nuovo compagno.
L’impero della tristezza riprendeva il sopravvento, la sovrana infelice doveva restare infelice a vita. Dicono che anche Farah Diba, la ragazza che aveva preso il suo posto presso lo Scià, la chiamò per dirle tutta la commozione che lei e il marito provavano per lei. Ma che cosa poteva valere questo messaggio per una che perdeva per la seconda volta in così poco tempo l’uomo amato?
Condannata a essere bella, sola e triste, Soraya se ne andò a Parigi, per dimenticare, o essere dimenticata.
In gioventù, più volte le era stato attribuito il premio “The Best” per l’eleganza e addirittura il celebre creatore di rose, Vittorio Barni, le dedicò una rosa color rosso geranio.
Soraya rimase comunque una delle protagonisti del jet set negli anni a venire, ma con lo sfiorire della bellezza, il notevole peso acquistato e i molti eccessi etilici, la sua vita divenne sempre più ritirata, il suo lussuoso appartamento parigino di Avenue Montaigne, la sua prigione dorata. Finché, una mattina, venne trovata morta dall’amica e dama di compagnia: aveva 69 anni.
Nonostante il referto parlasse di morte naturale, era evidente che la causa era da far risalire ai farmaci e all’alcool assunti. Venne seppellita a Monaco e i suoi beni venduti ad un’asta a Parigi. Tra questi, anche il suo abito da sposa, valutato 1,2 milioni di dollari.