A cura di Paola “Paolita” Valli
«Dans l’amour on ne s’applique pas à être bien, non: on aime avec de la douleur, de la joie mais surtout jamais de plat! Si l’on ne tremble pas du matin jusqu’au soir alors c’est raté.»
«In amore non ci si impegna a essere bravi, no: si ama con dolore, con gioia, ma soprattutto mai in maniera piatta! Se non si hanno i brividi dal mattino alla sera, allora c’è qualcosa che non funziona.»
Da questa frase scritta da Édith Piaf in una lettera datata 15 maggio 1950 si riesce a capire bene quale fosse il motore che spingeva la vita e l’arte della celebre cantante francese: l’amore in ogni sua forma, costantemente da cercare, vivere e celebrare nonostante tutto. E l’esistenza di Édith è stata certamente piena d’amore e di relazioni, così come di episodi ben più difficili e tragici.
Édith Piaf nasce come Édith Giovanna Gassion il 15 dicembre 1915 a Parigi, nel quartiere di Belleville. Già dalla sua nascita si formano i primi racconti e leggende: si dice che la madre l’abbia data alla luce per strada, sul marciapiede davanti al civico 72 di rue Belleville, dove oggi si può leggere una targa commemorativa dell’evento. In realtà i documenti ritrovati negli archivi parigini dimostrano che la madre Annetta Giovanna Margherita Maillard l’abbia partorita all’Ospedale Tenon, situato sempre nel quartiere di Belleville, sotto lo pseudonimo Line Marsa con cui era conosciuta.
Dopo la nascita la piccola Édith resta poco con i genitori: la madre di origini italiane e nata a Livorno è cantante di strada e in alcuni locali, il padre Louis Alphonse è un artista circense contorsionista di poco successo. La bambina viene affidata alla nonna materna ma anche quello sarà un luogo che chiamerà casa solo per un breve tempo: la donna non si cura della bambina e la abbandona spesso a se stessa in scarse condizioni sanitarie. Nelle sue Mémoirs addirittura Édith ricorda di come le mettesse del vino rosso nel biberon per farla restare più tranquilla a lungo.
Quando il padre durante una visita nota le condizioni in cui da un anno e mezzo a questa parte sta crescendo la figlia, non esita a portarla via. La prossima tappa della vita del piccolo Passerotto è in Normandia, presso la casa chiusa gestita dalla nonna paterna. È in questo luogo particolare per una bambina che Édith conosce l’affetto per la prima volta, amata e curata dalle prostitute che vi lavoravano. Probabilmente a causa delle scarse condizioni sanitarie della sua prima infanzia però la piccola viene colpita da una cheratite in entrambi gli occhi che la porta a una completa cecità fino all’età di 8 anni, secondo i racconti. Stando a ciò che è stato riportato poi dai giornali anni dopo e forse dalla stessa Édith in alcune interviste, la nonna paterna si premura di recarsi con lei a Lisieux presso la tomba di Santa Teresa, protettrice dei fedeli colpiti da malattie infettive. Miracolosamente alcuni giorni dopo gli occhi della bambina ricominciano a vedere: da allora Édith non mancherà mai di lasciare una preghiera per questa Santa durante tutta la sua vita.
Nel 1922 il padre decide di riprendere la figlia con sé per lavorare insieme in un circo itinerante e poi come artisti di strada: ormai solo e spesso alla ricerca di alcol, ritiene che la figlia lo possa aiutare a guadagnare di più. L’arte circense è la via che lui le vorrebbe far prendere e mantenere, ma nel momento in cui un giorno a 8 anni Édith intona la melodia de La Marseillaise per rimediare a un numero mal riuscito (anche questo dettaglio sembra essere leggenda, più probabilmente si trattava di altre canzoni meno patriottiche e più solite agli artisti di strada), il padre nota quanto il pubblico sia più ben disposto a sganciare qualche soldo in più per un duo composto da un uomo adulto contorsionista e da una bambina dolce e innocente che allieta i passanti con la sua voce.
Si separano nel 1930 quando la diciassettenne Édith decide di proseguire come cantante di strada insieme all’amica Simone Bertreaut (detta la Momone).
È per strada nel 1932 che incontra Louis Dupont, il primo uomo di cui si innamora. Da questa relazione nascerà l’anno successivo una bambina, Marcelle, stroncata però giovanissima da una meningite nel 1935. Si dice che per pagare le spese del funerale Édith abbia dovuto ricorrere alla prostituzione per un breve periodo.
Il 1935 è anche l’anno del suo debutto sulla vera scena musicale: Louis Leplée, direttore del cabaret Le Gerny’s, la sente cantare per strada durante una delle sue performance e dopo un provino decide di farla esibire per la prima volta in un vero e proprio locale, pagandola 40 franchi a serata (circa 15€ odierni). Sarà proprio Leplée a coniare il soprannome che Édith Giovanna Gassion userà all’inizio della sua carriera: la môme Piaf, che nell’argot parigino significa la piccola ragazza passerotto, creato sia per dare al pubblico un’immagine d’impatto da ricordare sia per rispecchiare la piccola taglia di Édith, che misurava solo 1,47m di altezza.
Nel cabaret la sua voce viene apprezzata e inizia a essere ben conosciuta, ma il tutto si ferma bruscamente quando pochi mesi dopo Leplée viene assassinato da ignoti. Persino Édith viene sospettata ma le indagini si chiudono senza un colpevole. Nonostante questo brutto episodio, fra il 1936 e il 1937 la sua carriera inizia a decollare: con i compositori Raymond Asso e Marguerite Monnot (con cui Édith lavorerà per gran parte della sua vita) inizia a incidere i primi dischi e a girare per le music hall di Parigi, dove viene presto conosciuta e adorata dal pubblico non più come il vecchio soprannome la môme Piaf ma semplicemente come Édith Piaf.
È il periodo di locali quali Bobino, L’Européen, il prestigioso ABC, il Moulin Rouge, nel 1943 canta persino a Berlino. In questo periodo buio per il mondo si dice abbia anche aiutato alcuni rifugiati ebrei, collaborando per fornire loro dei documenti facendoli passare per musicisti che lavoravano con lei: i racconti parlano di ben 118 persone salvate, anche se probabilmente erano molti meno. Sono gli anni in cui lancia la carriera del cantante Yves Montand con cui intrattiene anche una breve relazione, e in cui incide una delle sue canzoni più famose, La vie en rose, che registra nel 1946.
Durante la sua tournée americana nel 1948 incontra l’uomo che sarà il grande amore della sua vita: Marcel Cerdan è un pugile francese che in quello stesso anno viene proclamato campione del mondo dei pesi medi. È sposato e con figli, motivo per cui Marcel ed Édith mantengono segreta e lontano dai riflettori la loro breve ma intensa relazione.
Si conclude in maniera tragica nell’ottobre del 1949 quando l’aereo su cui viaggia Marcel si schianta al suolo: si dice che fu Édith stessa a chiedere al pugile di raggiungerla in aereo e non in nave, mezzo ben più lento ma che forse gli avrebbe salvato la vita. Hymne à l’amour è il pezzo con cui l’anno successivo Édith ricorderà il loro rapporto.
Seppur devastata dal dolore, la vita non si ferma e la trentaseienne Édith prosegue: lavora con il giovane Charles Aznavour, lanciando poi la sua carriera, e intrattiene una relazione con il ciclista Louis Gérardin.
Nel 1952 sposa il cantante Jacques Pills a New York, evento molto seguito dai giornali mondani dell’epoca.
Il 1953 è l’anno in cui inizia la sua lotta contro la dipendenza: a causa di un incidente automobilistico le vengono prescritte alcune dosi di morfina, da cui avrà difficoltà a separarsi. Inizia le prime cure per disintossicarsi ma l’essere colpita sia dall’artrite che dalla depressione rendono difficile questo processo. Nel frattempo la sua carriera decolla negli Stati Uniti, dove è ormai amatissima dal pubblico americano, diventando quasi una presenza fissa alla Carnegie Hall di New York.
Il 1956 è l’anno del divorzio da Pills, ma non rimane sola a lungo: nel 1958 inizia una relazione con un altro compositore che aiuterà a lanciare nel mondo della musica, Georges Moustaki. Lo stesso anno la vede protagonista di un altro incidente in auto che va a minare ancora più profondamente il suo già delicato stato di salute: è ormai dipendente dalla morfina, non disdegna l’alcol, le crisi depressive aumentano di intensità, probabilmente per tutte queste ragioni nel 1959 durante un concerto a New York si accascia sul palco priva di sensi.
Dopo diversi interventi chirurgici ritorna nella sua Parigi dove trascorre i suoi ultimi anni: una serie di esibizioni particolarmente ricordate da pubblico e critica sono quelle che prepara per aiutare il teatro Olympia a uscire da una crisi economica. Minuta più che mai, piegata dell’artrite, dall’aspetto debole ma dalla voce ancora forte, Édith regala al pubblico delle performance emozionanti, durante le quali canta per la prima volta la celebre Non je ne regrette rien nel 1961.
Nel 1962 si unisce in matrimonio all’ultimo uomo della sua vita, il giovane ventiseienne Théo Sarapo, con cui duetta in À quoi ça sert l’amour.
Una broncopolmonite proverà il suo fisico per l’ultima volta: dopo essere guarita non riesce a riprendersi del tutto e muore il 10 ottobre 1963 a soli 47 anni a causa di un aneurisma, probabilmente provocato dalla cirrosi epatica causata dalla forte assunzione di medicine negli anni. Alla celebrazione del suo funerale si è stimato che il feretro viene seguito da mezzo milione di persone che vogliono salutare l’immortale piaf prima di essere condotta al Père-Lachaise e sepolta accanto al padre, alla figlia Marcelle e al marito Théo Sarapo quando morirà a sua volta nel 1970.
Nove album e ben 305 canzoni registrate dal 1925 al 1963, l’usignolo dalla voce struggente è un’icona immortale della musica francese: nonostante la sua piccola stazza, Édith era in grado di riempire il palco grazie ai suoi brani, alle storie che cantava, alla gestualità con cui le accompagnava, al bagaglio di esperienze di vita che sicuramente il pubblico ricordava ogni volta che entrava in scena. Tutto ciò è stato affiancato da un look inconfondibile: l’abito nero, spesso di seta, sempre a maniche lunghe si dice per nascondere le cicatrici causate dai numerosi incidenti in auto; pochi e sobri gioielli (un anello, un bracciale); capelli ricci lunghi fino a poco sopra le spalle; sopracciglia molto fini che andavano ad accentuare la grande espressività durante le sue performance.
Nel suo libro Piaf: mon amie l’autrice Ginou Richer, amica e confidente di Édith per 15 anni, ricorda così la scelta dell’abito durante il debutto di Édith al cabaret di Leplée nel 1935: «Quando ha incontrato Louis Leplée e doveva cantare per la prima volta, ha dovuto pensare a cosa indossare come costume di scena. Non possedeva un abito nero ancora ma aveva una gonna nera. Per fare un completo si era lavorata ai ferri un maglione, ma il giorno del debutto non lo aveva ancora finito, le mancava una manica. È stata la moglie di Maurice Chevalier (attore e cantante francese, N.d.R.) che è entrata nel suo camerino e le ha avvolto un foulard scuro attorno al braccio. Cantando le è poi caduto, ma non è stato un problema visto il suo trionfo quella sera.»
Quel primo completo di scena messo insieme come meglio poteva è poi diventato il suo iconico tubino nero che mai mancava in ogni sua esibizione.
Al di fuori delle sue performance invece indossava abiti anche di diverso taglio e colore, portando sempre con sé un guardaroba ben curato, specialmente quando viaggiava negli Stati Uniti: «All’estero rappresentiamo la Francia, dobbiamo sempre essere ben vestiti.»
Édith aveva in particolare un occhio di riguardo verso un cappotto, come racconta sempre Ginou Richer: «Quando ha incontrato Marcel Cerdan, che è stato il suo grande amore, indossava sempre una pelliccia di castoro. Ogni volta che si vedevano lei ce l’aveva addosso. Dopo la morte di Marcel non l’ha più usata.»
Completano il suo look iconico pochi ma importanti dettagli: labbra spesso rosse per risaltare in contrasto con la pelle chiara e gli abiti scuri; sopracciglia rasate e disegnate molto fini, quale era la moda di quegli anni, simbolo di femminilità; attaccatura dei capelli molto alta che dava spazio alla fronte estremamente espressiva durante le esibizioni; capello scuro e riccio che le incorniciava il volto pallido. Il celebre specialista della cura estetica del viso e dei capelli Jean D’Estrées si occupa personalmente di Édith dal 1947, dopo averle offerto i suoi servizi tramite un biglietto recapitato al suo hotel.
Seppur ben studiati, aspetto e gesti non erano che un accompagnamento secondario a ciò che trovava fondamentale: cantare, fino alla fine e in qualsiasi modo. In un’intervista del 1960, solo tre anni prima della sua morte, parla così:
«È difficile [essere felici], non si è mai felici. Forse dieci minuti di felicità al giorno. Sono felice quando canto. [Cantare] è una valvola di sfogo, ci sono delle crisi di lacrime a volte ma è cantando che mi riprendo. Dovessi smettere credo mi suiciderei. [Se il medico ordinasse di smettere di cantare] gli disobbedirei, non faccio altro nella vita: disobbedire, a tutti.»