A cura di Marika Galluccio
Marina Abramović, la “Grandmother of performance art” (“nonna della performance art”), come lei stessa si definisce, è forse una delle figure più importanti dell’arte contemporanea.
Nacque a Belgrado il 30 novembre 1946, da genitori che furono partigiani durante la seconda guerra mondiale (il padre divenne addirittura eroe nazionale).
Si avvicinò al mondo dell’arte in un modo alquanto particolare. Infatti, quando aveva 14 anni, il padre le presentò un amico che, dopo aver tagliuzzato una tela, ci riversò sopra alcuni oggetti per poi dargli fuoco con un fiammifero . All’opera diede il nome di “Tramonto”.
Qui iniziò il percorso artistico di Marina che, dal 1965 al 1972, frequentò l’Accademia di Belle Arti a Belgrado divenendo, successivamente, lei stessa un’insegnante, anche se in un differente istituto. Esordì come artista nel 1973 con “Rhythm 10”, performance che metteva in risalto l’importanza dei gesti. Nel 1974 fu conosciuta anche in Italia grazie alla performance “Rhythm 4”.
Si trasferì ad Amsterdam nel 1976. Lì conobbe un artista tedesco di nome Ulay con il quale ebbe una relazione artistica e sentimentale fino al 1988.
Nel 1987, alla Biennale di Venezia, vinse il Leone d’Oro grazie alla performance “Balkan Baroque”.
Andiamo a vedere alcune delle sue opere più famose nel dettaglio: La loro caratteristica è quella di indagare le possibilità della mente, i limiti del corpo e la relazione che si instaura tra l’artista ed il suo pubblico.
Rhythm 10: si ispira ad un gioco russo eseguito con 20 coltelli. Dopo aver registrato l’esecuzione, l’artista tenta di ripetere gli stessi gesti, compresi gli errori, mescolando in tal modo passato e presente.
Rhythm 0: anno 1974, forse la performance di maggiore impatto emotivo, mirata a mettere in evidenza reazioni e istinti degli spettatori.
Sopra ad un tavolo, l’artista dispone una serie di oggetti capaci di provocare dolore o piacere. Per 6 ore rimane in balia del suo pubblico, come priva di volontà, lasciando che gli spettatori usino liberamente quegli strumenti su di lei.
Dopo le prime tre ore dall’inizio dell’opera, la situazione degenera: vestiti e pelle vengono incisi, qualcuno assaggia il suo sangue, un’arma carica le viene messa in mano e puntata addosso…fu a quel punto che parte del pubblico reagisce per prendere le difese della Abramović nei confronti degli altri spettatori.
Rhythm 5: prende il suo nome dalle due stelle a cinque punte utilizzate per la performance. Una volta cosparse di petrolio e incendiate, l’artista si ferma al di fuori di esse gettandovi all’interno, dopo averli tagliati, i suoi capelli e le sue unghie. Volendo rappresentare la purificazione fisica e mentale, Marina salta tra le fiamme, al centro della stella. L’eccessivo calore e la carenza di ossigeno causano la perdita dei sensi dell’artista che viene salvata dall’intervento di alcuni spettatori.
Art must be beautiful – artist must be beautiful: “L’arte deve essere bella, l’artista deve essere bello” e mentre ripete queste parole, Marina tiene nelle mani un pettine ed una spazzola di metallo con i quali si pettina per un’ora, fino a ferirsi il viso e strapparsi i capelli.
Thomas Lips: la performance in cui l’artista arriva a superare i limiti del suo corpo. Con un cucchiaio d’argento mangia 1kg di miele e poi beve un litro di vino da un bicchiere che poi rompe con la sua stessa mano. Man mano si passa a gesti di maggiore impatto fino a sfociare nell’autolesionismo incidendosi una stella a cinque sul punte ventre, fustigandosi e ponendo il suo corpo su una croce fatta di blocchi di ghiaccio fino all’intervento del pubblico che, incapace di rimanere impassibile, la allontana dal ghiaccio.
Freeing the body: per otto ore l’artista si muove seguendo il ritmo di un tamburo, con una sciarpa nera avvolta attorno alla testa fino a che, sfinita, finisce a terra.
Freeing the memory: con l’intento di liberare la lingua dalla sua convenzione comunicativa, l’artista recita tutte le parole che la sua mente è in grado di ricordare.
Freeing the voice: supina, con la testa reclinata all’indietro, l’artista porge il viso al pubblico ed emette un unico suono atono. Vuole stimolare il pubblico a rispondere, a interagire, in modo che anch’ esso possa far parte della performance. Come nelle due opere precedenti, anche qui lo scopo è quello di purificare corpo e mente fino a scivolare nell’incoscienza.
Imponderabilia: Bologna, insieme al compagno Ulay. Entrambi gli artisti sono nudi ai lati della porta di accesso alla Galleria di arte moderna. Chi vuole accedere alla Galleria è costretto a scegliere verso quale dei due corpo rivolgersi.
City of Angels: video sperimentale girato in Thailandia, con interpreti thailandesi e privo di voce fuori campo e di traduzione. Tramite esso, l’artista vuole rappresentare la bellezza delle antiche rovine di quel luogo.
Dragon Heads: l’artista sta seduta al centro di un cerchio formato da blocchi di ghiaccio; sul suo corpo si muovono e attorcigliano 5 pitoni lunghi fino a 4 metri.
The Abramović Method: Milano. Attraverso un piccolo mondo creato con legno e minerali, l’artista, attraverso giochi di luci-ombre e assenza-presenza, permette al pubblico di evadere dalla realtà per qualche ora, rimanendo solo con se stesso.
“Art must be beautiful – Artist must be beautiful” è forse l’unica performance in cui Marina Abramović tocca l’argomento della bellezza del corpo. Questa video-performance, registrata nel 1975, vuole essere una denuncia all’estetica occidentale che cerca di imprigionare l’arte in specifici canoni visivi anche a costo di sacrificare il contenuto stesso dell’opera. In questo modo, Marina ci insegna che la bellezza non è tutto e che, se usata come parametro esclusivo, rischia di rendere vuoti sia l’arte che l’artista e la stessa cosa vale anche per ogni essere umano.
Ciò nonostante, Marina è pur sempre una donna oltra che una performer, e in quanto tale, il suo rapporto con il suo corpo e con la sua estetica è cambiato nel corso della sua vita. In particolare dopo la sua ultima performance con Ulay nel 1988 “The Lovers” due ognuno ad un lato opposto della Grande Muraglia cinese, avrebbero dovuto camminare per raggiungersi al centro, e nel piano originale, sposarsi una volta lì. Camminarono per tre mesi, ma per quando si ritrovarono la relazione era già compromessa da tempo, e si separarono. Fino ad allora Marina si era sentita brutta, grassa e non desiderata: non desiderosa di apparire bella o di indossare trucco, bei vestiti o smalto, come dichiara lei stessa, nonostante nella sua vita d’artista dimostrasse grande sicurezza. Dopo The Lovers però, non sente più il bisogno di dimostrare al suo pubblico che è una brava artista, ed è forse questo che la libera, facendola avvicinare al mondo della moda, ed in particolare a Givenchy in era Riccardo Tisci, di cui ora possiede tantissimi pezzi. Azzarda nelle sue apparizioni pubbliche anche del trucco ormai, smokey nero che sembrerebbe matita sfumata, magari a seconda dell’occasione intensificata con un ombretto sempre nero, ed un rossetto rosso sui red carpet, come alla Biennale di Venezia.
Insomma, l’artista e la donna sembrano essersi incontrate in età matura per fare pace, e trovare un equilibrio tra la ricchezza interna e l’aspetto esterno.