A cura di Yasmin Hadjeres
Riaprendo la rubrica, l’8 marzo, scelta non casuale, mi sembrava doveroso (ri)tornare con una delle categorie di donne più influenti per il nostro sesso, ma anche per lo sviluppo delle società occidentali e non: le suffragette.
L’occasione si rivela davvero perfetta in quanto quest’anno si celebrano i 100 anni del “Representation of the People Act”, la prima conquista del suffraggio femminile nel Regno Unito, seppur parziale per sole donne sopra i 30 anni, sposate e con uomini in possesso di proprietà; mentre bisognerà aspettare il 1928 con “l’Equal Franchise Act” perché le donne abbiano la completa parità. Le conquiste e ripercussioni britanniche sono molto importanti, perché avranno eco in tutta Europa, concatenando un irreversibile processo.
Andiamoci a concentrare in particolare sulla figura predominante del movimento: Emmeline Pankhurst, andando poi ad aprire sulle suffragette in maniera generale.
Emmeline Pankhurst (nata Goulden) nasce il 15 luglio 1858 a Manchester, in una famiglia già molto politicamente attiva, che aveva partecipato fra le altre cose alla “Anti-Corn Law league” o al massacro di Peterloo.
Il padre, Robert Goulden, era un fervente attivista politico, impegnato col consiglio municipale o in cause come l’abolizionismo negli Stati Uniti, arrivando anche ad ospitare in casa abolizionisti e militanti.
Tutto questo veniva assorbito dalla allora piccola Emmeline, che già da bambina leggeva testi impegnati, manifesti politici, ispirati alla rivoluzione francese, ma con ancora più interesse il “Women’s Suffrage Journal” che la madre riceveva, redatto da Lydia Becker. Accompagnando la madre ad un incontro pubblico ne rimase ulteriormente affascinata, e si può dire che da quel momento iniziò la sua consapevolezza.
Nonostante le vedute progressiste dei Goulden, ed il loro concordare sul necessario ottenimento di diritti per le donne, concessero un’educazione più completa ai figli maschi, pensando che comunque tutte le loro figlie femmine si sarebbero dovute sposare con un buon partito, perché l’avanzamento sociale sarebbe stato qualcosa di remoto. Si dice che Emmeline, sentì il padre dire una notte, credendo che stesse dormendo, “peccato che non sia nata maschio”.
Nel 1878 incontrò Richard Pankhurst, un accademico sostenitore del suffraggio femminile e della libertà di parola, col quale iniziò un corteggiamento, ed al quale propose molto modernamente una “libera unione”, quella che oggi definiremmo una convivenza. Il matrimonio dovette però comunque avvenire, in quanto una donna non sposata all’epoca era esclusa da quasi tutti i settori della vita sociale, e ovviamente anche dall’attività politica.
Dall’unione nacquero cinque figli durante gli anni ’80, anni nei quali Emmeline conciliava famiglia e attività politica, militando come suffragista nella Women’s Suffrage Society: Christabel, Sylvia, Francis, Adela ed Henry. Le figlie femmine in particolare, come si saprà, diventarono a loro volta suffragette negli anni successivi e contribuirono a costruire il mito del nome “Pankhurst” vivo ancora oggi con la bis-nipote Helena e la figlia Laura, attiviste a loro volta.
Il trasferimento della famiglia a Russell Square segna un grande cambiamento: i Pankhurst iniziano ad ospitare personalità del ceto politico, attivisti del nascente socialismo, dell’anarchismo francese, ed erano sempre più in prima linea nell’attività politica del paese.
In quegli anni si dibatteva su quale sarebbe stata la via più breve per ottenere il voto femminile con pareri discordanti: chi sosteneva che chiedendolo per nubili e vedove sarebbe dovuto essere il primo passo, dato che si considerava una donna sposata come non avente bisogno del voto perché “suo marito aveva già votato per lei”, o chi, come Emmeline e Robert, sosteneva che il diritto di voto doveva essere concesso a tutte le donne, senza distinzioni.
Questa presa di posizione li portò a fondare nel 1889 la “Women’s franchise league” le cui riunioni avvenivano nella casa di Russell Square. Ben presto, la lega si fece carico di sostenere anche altre importanti cause come il diritto al divorzio o all’uguaglianza ereditaria, e per Emmeline seguirono in parallelo, anche anni di attivismo partitico presso l’Indipendent Labour Party, l’antenato dell’attuale partito laburista.
Purtroppo già nel 1898 moriva Richard, lasciando ad Emmeline, oltre al dolore, numerose responsabilità e debiti. La posizione ed il trattamento legale dopo la morte del marito però, non fecero che rafforzare le sue convinzioni che le donne avessero bisogno di maggiori diritti, idee che avevano attecchito anche nelle figlie ormai grandi, in particolare Christabel che iniziò a seguire la madre in eventi e comizi.

Nel 1903, la svolta epocale: la fondazione del WSPU, Women’s Suffrage and Political Union da parte delle Pankhurst. Questo segna definitivamente la rottura nel movimento suffragista e la nascita delle suffragette vere e proprie. Dopo decenni di attività politica, Emmeline si rende conto che essere suffragista con argomentazioni e metodi pacifici non avrebbe portato a niente, e soprattutto non avrebbe dato nessuna rilevanza alla causa. L’azione del WSPU si concentrava unicamente sull’ottenimento del voto, cosa che l’ILP aveva abbandonato definitivamente, facendo allontanare Emmeline.
Radunate sotto ai motti di “Votes for Women” e “Deeds not words”, ben presto le Pankhurst convogliano decine di donne diffondendo il verbo in tutto il Regno Unito, organizzando comizi, Parlamenti femminili, e proteste davanti agli edifici del governo.
Brevemente iniziarono gli arresti, nel 1908 il primo di una lunga serie per Emmeline, ma che erano visti solo come un’ulteriore modo per fomentare l’opinione pubblica e dare rilevanza mediatica al WSPU e alle loro richieste, tant’è che Christabel, che aveva studiato legge e sapeva fin dove arrivare, si ingegnò per colpire un ufficiale in volto durante una protesta, senza ferirlo, ma quel tanto che bastava per essere arrestata appositamente.
Derise dal governo, capeggiato dal pm Asquith, e trattate ancora con mera indifferenza da tutti gli altri partiti della nazione che non prendevano minimamente in considerazione la questione femminile, il WSPU incominciò dal 1908 ad inasprire le tattiche.
Dopo una riunione di mezzo milione di attiviste ad Hyde Park, ci furono scontri violenti durante i quali alcuni membri arrivarono a scagliare pietre al 10 di Downing Street. I numerosi arresti di quel periodo si tramutarono in altrettanti scioperi della fame, in particolare nelle carceri, come sdegno verso le condizioni di detenzione ed ulteriore eco mediatico.
Dal governo nasceva la necessità di accertarsi che nessuna suffragetta morisse in prigione: sarebbe potuta diventare una martire. Venivano così nutrite forzatamente con tecniche dolorose, gancetti inseriti in naso e bocca che sostenevano tubi per veicolare cibi liquidi.
La stampa nazionale era divisa: iniziava ad affacciarsi qualche timida opinione a favore, ma numerosi erano i pareri di chi condannava e scherniva, consigliando ovviamente proteste moderate tutto al più.
Al contrario, le tecniche violente si intensificarono ancora di più: dalla maggior parte delle interviste fatte alla suffragette ancora in vita nel 1970 dallo storico Brian Harrison che ho avuto il piacere di ascoltare, emerge molto chiaramente che la regola d’oro era quella di “Non ferire nessuno”; ma che per tutte le azioni militanti avevano sempre il pieno appoggio delle Pankhurst.
Incendi dolosi, esplosivi nelle cassette delle lettere, pietre scagliate contro le vetrine: sono solo alcune delle tecniche adottate dalle suffragette per farsi ascoltare, che possibilmente dovevano sempre essere nuove per sorprendere le forze dell’ordine, e per rinnovare la domanda e l’intensità della causa.
Nelle registrazioni, Leonora Cohen, la suffraggetta di Leeds diventata poi OBE (Order of the British Empire, il più alto riconoscimento in Gran Bretagna per i servizi resi alla nazione), racconta: “Giravo per Londra, alla ricerca di un’azione che avrebbe scosso, e vidi la Tower of London: pensai, “è perfetta!”. Tutte mi dissero che sarebbe stato impossibile e che mi avrebbero arrestata ancora prima di entrare, ed io ovviamente ero paralizzata dalla paura, invece riuscii ad entrare, e con una spranga di ferro, colpii la vetrina dei gioielli della corona. Perché ebbi il coraggio di fare questo e non di lanciare sassi ad una vetrina di Bond Street in precedenza? Cosa avremmo ottenuto con una vetrina qualsiasi, presso il governo? Serviva qualcosa di forte per mandare un messaggio concreto, e la Tower of London è uno dei posti più famosi al mondo.”
Non mancavano ovviamente disaccordi all’interno dello stesso WSPU su cosa fosse troppo o non abbastanza, ma come racconta la suffragetta Maude Kate Smith: “da un lato, ovviamente ti sentivi in colpa, dall’altro bisognava andare avanti, era inevitabile, ma non abbiamo mai pensato che le nostre leader (le Pankhurst) fossero nel torto.”
Altrettante o forse ancora di più erano però le adesioni, e le donne che si sentivano ispirate, motivate e che s’identificavano in questa presa di coscienza generale proveniente dalle donne di ogni ceto: Il WSPU cresceva a dismisura, e le donne riempivano le strade di tutta la Gran Bretagna quotidianamente, confortandosi a vicenda con “Never give up the fight/ Non abbandonare mai la lotta”. Il voto era la priorità assoluta ovviamente, ma anche molti diritti fondamentali, umani e sociali, come il diritto all’affidamento dei figli.
Le violenze subite da parte della polizia per strada e nelle carceri furono enormi: le suffragette sopportavano qualunque sacrificio in nome della causa. Molte si vedevano allontanate dai propri figli, abbandonate dai propri mariti, poiché pochi uomini erano ovviamente propensi a sostenere l’attività politica delle mogli, sbattute fuori delle loro stesse case. C’è chi, come Emily Davison nel 1913, donò addirittura la propria vita, in uno dei momenti più famosi del movimento delle suffragette: Emily morì travolta dal cavallo di re Giorgio V, buttandosi in pista al derby di Epsom mentre sventolava la bandiera del WSPU. L’incidente ebbe risonanza in tutto il mondo, ed era chiaro che le suffragette non si potevano più ignorare o deridere.

Tornando alle Pankhurst, all’alba della Prima Guerra Mondiale nel 1914, Emmeline e Christabel, considerando che il paese aveva bisogno dell’appoggio di tutti, quindi anche delle donne, indissero una tregua nel WSPU, e una sospensione delle attività: “Quando giungerà il momento, riprenderemo quella lotta, ma per ora dobbiamo fare tutto il possibile per combattere e vincere contro il nemico comune.”
Questa cosa provocò non poche fratture e dissensi sia a livello personale fra le Pankhurst, in quanto Sylvia era diventata filo socialista e considerava la guerra una “propaganda capitalista”, che all’interno del WSPU, dove alcuni membri erano oltraggiati dalla collaborazione col governo.
Emmeline iniziò quindi con lo stesso impegno, a difendere lo sforzo bellico nazionale, promuovendo le iniziative del governo per far entrare le donne nella forza lavoro durante la guerra, occupandosi dei “bambini di guerra” e aprendo un dialogo privilegiato con il nuovo pm Lloyd George, che si fidava di lei, tanto da chiederle di intercedere come ambasciatrice in Russia, dove gli scritti della Pankhurst erano stati letti ed apprezzati in un clima già ampiamente rivoluzionario, per tentare un contenimento del comunismo nascente, e la richiesta di non accettare le condizioni dell’impero tedesco.
Questi sforzi vennero premiati dato che nel 1918, Lloyd George concesse il “Representation of the People Act”, la prima pietra miliare del voto femminile in Europa. Il WSPU venne ricostituito come “Partito delle donne” ed Emmeline riprese nuovamente l’attività, concentrandosi su nuovi obiettivi: Campagna elettorale per l’introduzione delle donne in Parlamento, con Christabel come candidata.
Christabel purtroppo perse per pochi voti, e il Partito delle donne si sciolse poco dopo.
Gli ultimi anni della vita di Emmeline si divisero fra numerosi viaggi, riavvicinamento con l’ILP e divisioni per problematiche private ed ideologiche con le figlie, in particolare con Sylvia, con lo scandalo del figlio illeggittimo. Lo shock e la vecchiaia fecero ammalare Emmeline che morì il 14 Giugno del 1928, proprio l’anno del “Equal Franchise Act”.
Potrebbe apparire a questo punto superficiale parlare di beauty e di estetica, se non fosse che entrambe le cose hanno avuto invece un ruolo fondamentale nel movimento delle suffragette.
Sybil Morrison dichiarava: “Ci era espressamente richiesto di non vestirci e conciarci come gli uomini per ottenere qualcosa o essere considerate, ma anzi, essere il più femminili possibili”.
Le Pankhurst, erano donne di un’eleganza strepitosa, che non veniva mai a mancare nelle manifestazioni: vestiti con pizzo, colletti e collane di perle, copricapi con piume, niente era troppo bello per apparire “bene” agli occhi del paese; essere sciatte secondo il loro parere avrebbe solo nuociuto alla causa.
I corsetti diventavano meno stretti, e il punto vita più basso: gli abiti in tessuti più fluidi segnavano una donna che si stava emacipando, ma che voleva rimanere molto femminile.
L’idea di andare contro lo stereotipo di “donne potenti solo se in abiti maschili” funzionò, dato che il look della suffragetta divenne un simbolo, e man mano che il movimento cresceva, anche le giovanissime che non ne facevano magari parte attiva potevano identificarsi con queste donne attraverso il vestiario, una spilla, un dettaglio.
Nel 1908, venne deciso lo schema dei colori che contraddistingueva le suffragette: viola, per la lealtà e la dignità, bianco per la purezza e verde per la speranza.
Era più frequente trovare questi colori sulle strisce che portavano lungo gli abiti spesso bianchi durante le manifestazioni, colore fresco e femminile, ma anche su bandiere, fiocchi, spille.
Le Pankhurst così come la maggior parte delle suffragette, si collocavano in un nuovo tipo di femminilità, affrancata da quella dell’epoca vittoriana, che veniva chiamata “New Woman” o la “Gibson girl” per le americane, dalle illustrazioni di Charles Gibson.
Un tratto caratteristico sono le acconciature chiamate “bouffant” “pompadour” e “chignon”: i capelli, cotonati, dovevano essere sospesi molto morbidamente sulla testa, in modo da donare più praticità ma anche più volume ed importanza alla figura, come una metafora dell’importanza che stava assumendo nella società. L’altra pettinatura si otteneva con dei rolls, ovvero una singola o più strisce in tessuto foderato per renderlo più voluminoso, alla quale si arrotolava il capello nel senso contrario, per “incoronare” i lati della testa. Un po’ come gli accessori dei quali ci serviamo oggi per fare un raccolto elaborato.
Venivano lavati più spesso che in passato, e tinti applicando l’henné con una spazzolina, o un misto di glicerina, olio di bergamotto e rhum per prevenire l’ingrigimento dovuto alla secchezza.
La pelle doveva essere rigorosamente pallida: il sole andava evitato a tutti i costi con guanti ed ombrellini. Si iniziava ad indossare un po’ di trucco, anche se principalmente rossetti in toni modesti, come il rosa pesca, o le labbra tinte con petali di geranio o papavero. Il vero elemento in voga era la cipria: già confezionata da alcuni profumieri, polvere di perla oppure semplice amido.
La skincare era preferita al trucco: creme a base di burro di cacao, olio di mandorle, vaselina e glicerina erano molto frequenti.
Il trucco, così come la skincare ed i profumi, nei quali venivano introdotti gli ingredienti sintetici, facendoli costare di meno, diventavano più alla portata di tutte, con l’apertura un po’ come in tutta Europa dei grandi magazzini, in Gran Bretagna con Selfridge’s ad esempio.
Spero che quest’approfondimento sulla figura di Emmeline Pankhurst, sul mondo delle suffragette e sulla loro estetica vi abbia interessato e dato voglia di saperne di più. Il suffraggio è una battaglia che si è spesso ripresentata lungo i secoli in varie epoche e contesti, in maniera preponderante da quando si sono affermati gli Stati moderni e le Repubbliche, ma è in particolare per queste coraggiose donne, che sono solo uno degli esempi di donne che potremmo onorare in occorrenza dell’8 marzo, che personalmente la mia carta elettorale non è mai stata vuota da quando l’ho ottenuta e non lo sarà mai. Mi auguro che questo pensiero sia diffuso e che la loro tenacia ispiri ed accompagni molte donne ancora oggi, in tante battaglie.